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La Sindrome del Nido

Un “personaggio” qualificato. Damiano non è un pilota e nemmeno un istruttore di guida ma è, di certo, un motociclista; un appassionato delle due ruote, non della velocità, non della pista ma della sensazione di libertà che la moto offre. Il dott. Dereani, però, non è solo un appassionato di motori ma è uno specialista di psicologia forense e una delle materie che tratta, con maggior interesse, sono i postumi derivanti dai sinistri stradali. Viste le sue qualifiche, però e considerata la rilevanza dell’argomento, a Damiano mi piacerebbe chiedere cosa si intende per “sindrome del nido” in materia di sicurezza stradale, e che consigli ci da per evitare che detta “sindrome” provochi dei danni irreparabili. Vediamo che consigli ci da!

dott. Dereani

La Sindrome del Nido
di Damiano dott. Dereani
Professione: Psicologo (Master in Terapia Strategica Breve, Master in Neuropsicologia e Psicopatologia Forense, Master in Psicologia dello Sport, Ctu e Perito presso il Tribunale di Brescia)
Sito internet: www.perizia-psicologica.com

“La prima volta che ho sentito parlare della Sindrome del Nido avevo circa 20 anni, mi trovavo acciaccato in mezzo ad un prato con un deltaplano rotto sopra di me e mio zio, il mio insegnante di volo, che mi guardava perplesso cercando di capire come avessi potuto sbagliare l’atterraggio di circa 500 m (laddove normalmente il margine di tolleranza si aggira attorno ai 10 m!).

Una delle ipotesi, visto il buon svolgimento del mio apprendistato fino a quel momento, era proprio che fossi stato vittima di quella che poi all’università avrei sentito definire Sindrome del Nido ma che all’epoca mi fu descritta da mio zio come l’effetto “Profumo della Stalla”, fenomeno per cui il rischio di cadere da cavallo è massimo nelle vicinanze della stalla per il fatto che, sentendone il profumo, l’animale tende istintivamente ad accelerare senza alcun comando.

In effetti, analizzando l’incidente, ciò che si era verificato era proprio questo: nei primi voli avevo guadagnato così tanta sicurezza da credere quel giorno di potermi concedere un po’di relax e godermi il panorama a poche decine di metri dall’atterraggio, nella netta convinzione che “tanto ero arrivato…”. Un paio di secondi di distrazione hanno comportato una decina di metri di quota che mi hanno portato nel giro di pochi secondi ad un fortunoso atterraggio a quasi mezzo chilometro dalla meta, in un prato poco più grande del deltaplano, in mezzo ad un incrocio stradale e sotto un filo dell’alta tensione.

Due secondi di distrazione, vita salvata per un pelo.

Che la distrazione possa portare ad effetti fatali è un’evidenza condivisa da tutti, meno lo è il fatto che questo calo di tensione possa palesarsi proprio nei momenti in cui non potremmo sentirci più sicuri di così.

La concentrazione, infatti, ha solitamente un andamento prevedibile in relazione alla sicurezza: più ci sentiamo sicuri, più rimaniamo concentrati. Il massimo della prestazione cognitiva in termini di concentrazione, e quindi efficacia, è, fino ad un certo punto, direttamente proporzionale alla sicurezza percepita.

Perché fino ad un certo punto?

Perché noi a volte facciamo le cose meravigliosamente fino ad un passo dall’obiettivo, ma giunti a questo punto, proprio perché più sicuri di così non potremmo sentirci, è come se ci dicessimo sottovoce e tra le righe che “ormai è fatta”e a quel punto molliamo leggermente la presa e caliamo l’attenzione, visto che, per l’appunto, siamo a un passo dal traguardo. È a questo punto che quello che ci è venuto benissimo e in maniera automatica fino ad un secondo prima, ci sfugge involontariamente poco dopo e ci porta, a seconda delle situazioni, a tagliarci un dito all’ultima cipolla, a sbagliare un goal a un metro dalla porta, a inciampare nel penultimo scalino, a cadere a cavallo a 100 m dalla stalla dopo 1 settimana di trekking, a farsi male all’ultima discesa con gli sci, a cadere in bici o a piedi a 10 metri dal traguardo o a uscire di strada proprio su quella curva vicino che abbiamo fatto mille volte.

Cosa hanno in comune tutte queste situazioni? Che in tutti questi casi lo sfortunato soggetto aveva in mente che “ormai era fatta…”.

Cosa c’è dietro a queste apparentemente banali sviste che possono però portare ad esiti tragici? Qual è il meccanismo neuropsicologico che le spiega?

Perché è così pericoloso?

E, soprattutto, vista le possibili conseguenze, perché ci caschiamo?

La risposta si basa su due elementi strutturali della nostra mente: da un lato la complessità del suo funzionamento, dall’altro la sua semplicità percepita. Mi spiego meglio.

Da un lato vi è il fatto che per funzionare così come funzioniamo la mole di informazioni che nello stesso momento devono essere elaborate e sincronizzate è gigantesca, dall’altra vi è il fatto che ci viene tutto così facile (camminare, parlare, ricordare, sentire, vedere, dormire, respirare…) che non immaginiamo neanche lontanamente quello che sta dietro a processi così scontati, come leggere questo articolo (per cui c’è un sistema che ci fa tenere gli occhi aperti, uno che fa sbattere le palpebre, uno che verifica se sia il caso di sbatterle, uno che evita che una volta cominciato continuiamo a sbatterle a caso, uno che tiene in asse gli occhi, uno che regola l’apertura della pupilla, uno che monitora la quantità di luce che raggiunge la camera oculare, e potrei andare avanti, senza rischiare di esagerare, per migliaia di pagine…).

In realtà in qualche caso isolato abbiamo una vaga idea di questa complessità; succede infatti che si possa “dare un’occhiata”all’interno della nostra mente cognitiva, ma questo è possibile solo in situazioni particolari, cioè quando qualcosa si rompe e non funziona più bene. Ecco allora che si nota come pronunciare una frase, indicare col dito, comandare il proprio corpo, stare al mondo non sia così scontato dopo un qualsiasi incidente cerebrale, anche minimale.

Tornando alla Sindrome del Nido, quello che succede in questo fenomeno non è da considerare un danno cerebrale; durante queste defaillance del cervello non vi è un malfunzionamento neurologico ma, piuttosto, un uso ingenuo delle funzioni cognitive necessarie per fare quello che stiamo facendo. In parole povere, per un attimo usiamo male degli strumenti che funzionano benissimo; più in particolare, diamo per scontato che tutto continui a funzionare anche se smettiamo di fare una cosa fondamentale: prestare la sufficiente attenzione.

Ognuna delle attività sopra elencate, come tagliare una cipolla, sciare, guidare, sono state fatte talmente tante volte che per una buona parte vengono certamente considerate automatiche; bisogna fare attenzione però alla differenza tra “essere”automatiche e “percepirle” come automatiche. Va tenuto conto che si potrebbe scoprire a proprie spese che se fossero veramente completamente automatiche potremmo tagliare migliaia di cipolle all’infinito senza mai tagliarci; in realtà ci accorgiamo che le “percepiamo” automatiche solo quando sentiamo male. È allora che ci chiediamo come mai una cosa che facevamo da un’ora ha smesso di funzionare proprio all’ultima cipolla.

Succede che per funzionare alla perfezione, queste attività hanno bisogno del parallelo impiego di svariate abilità cognitive: motorie, visive, di equilibrio, previsionali, correttive, posturali, di linguaggio, di memoria, di programmazione, inibitorie e via dicendo. Tutto va liscio e alla perfezione fino a quando all’ultima cipolla, all’ultimo km, all’ultima curva ci sentiamo così sicuri da esserlo troppo, togliamo la quota di attenzione necessaria per il corretto funzionamento di tutto il sistema e facciamo la frittata esattamente sulla cosa che eravamo così sicuri di fare bene.

Qui ci accorgiamo che qualcosa non ha funzionato ma troppo spesso ce lo spieghiamo con la sfortuna o il caso.

C’è invece una spiegazione neuropsicologica che chiarisce questo meccanismo; conoscerla permette, oltre alla bella figura con gli amici al bar prima di partire per casa, di minimizzare gli eventuali rischi connessi a questo fenomeno.

Non è vero che per andare a casa la vostra macchina “ormai guida da sola”; fino adesso lo avete fatto voi, dando inutili meriti a lei.”

Ringraziando Damiano per il Suo prezioso intervento non mi rimane molto da aggiungere anche se, da giurista, Vi voglio ricordare, visto e considerato che la sindrome del nido è pericolosa anche per i bambini (che tendono ad aprire la portiera dell’auto, parcheggiata sotto casa, senza verificare se sopraggiungono altri veicoli -ad es. biciclette- proprio perché “si sentono a casa” e quindi protetti nel c.d. “nido”) che l’art. 2048 del codice civile dispone (per quanto di interesse) comeIl padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi.”. Ciò premesso, nell’esempio di cui sopra, il danno cagionato al ciclista, che si scontra con la portiera aperta improvvisamente da Vostro figlio, deve essere risarcito da Voi.

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